150° anniversario dell’Unità d’Italia
DALLA “GRANDE GUERRA” ALLE LEGGI RAZZIALI
1915 - 1938
Nella 1^ Guerra Mondiale gli italiani hanno combattuto su due fronti : il “fronte esterno”, combattuto contro l’impero austro-ungarico e tedesco dalle forze armate italiane sui fronti di guerra, in cielo, sui mari, e un “fronte interno” che ha coinvolto la popolazione italiana sul territorio nazionale, in particolare il mondo del lavoro, per le misure restrittive imposte dai comandi militari e dal governo contro l’associazionismo operaio e contadino e ogni altra forma di associazione politica e culturale, che avesse al suo interno espressioni di dissenso verso la guerra e di richiesta di migliori condizioni di lavoro e di salario.
Ci fu molto di più: una vera e propria “criminalizzazione del dissenso”. A partire dal 24 maggio 1915, fu instaurato un regime che sottoponeva alla giurisdizione militare tutti i dipendenti delle industrie considerate di interesse strategico (in pratica tutte). L’abbandono del posto di lavoro…veniva equiparato alla diserzione. Vietato quindi lo sciopero.
I moti operai di Milano nel maggio e di Torino nell’agosto del 1917, furono repressi con inaudita violenza. Manifestazioni di malcontento per le precarie condizioni economiche dei lavoratori, venivano considerate un “tradimento della patria”. Analogamente manifestazioni di dissenso dei soldati al fronte per le pessime condizioni di vita nelle trincee, e in molti casi per la discutibile conduzione della guerra dei comandi militari, furono represse con carcere e fucilazioni sul posto.
Dopo Caporetto, il 21 ottobre 1917, seguì la fase più drammatica della guerra. Errori ed impreparazione tecnico/militare dello Stato Maggiore di Cadorna, provocarono l’arretramento del fronte dall’Isonzo al Piave, la caduta in mano austriaca di una quantità ingente di materiale militare posizionato su quel vasto territorio, e la cattura di circa 300.000 prigionieri (sui circa 650.000 presenti nell’area). Invece di fare autocritica, i comandi militari, sostenuti dai capi politici dell’interventismo in guerra, scatenarono una violentissima campagna d’opinione contro i militari fatti prigionieri. D’Annunzio aveva sentenziato: “Chi si rende prigioniero, si può veramente dire che pecca verso la Patria, contro l’Anima, e contro il Cielo”.
Contro i prigionieri “peccatori”, all’inizio del 1918 i Comandi, in perfetto accordo fra regime militare e governo civile, presero una decisione senza precedenti contravvenendo a tutte le convenzioni internazionali sul trattamento dei prigionieri: venne data la disposizione che gli indispensabili rifornimenti alimentari da parte delle famiglie venissero intercettati per non farli giungere a destinazione nei campi di prigionia, come Mauthausen, Theresienstadt, ecc. che diventeranno poi lager nazisti, facendo diventare questi ultimi vere e proprie “città dei morenti”. Le ricerche austriache sul fenomeno documentano come i prigionieri chiedessero increduli il perché di questo abbandono, con lettere strazianti. La propaganda ossessiva condotta nel territorio nazionale sull’opinione pubblica e le famiglie, diede i suoi nefasti effetti: convinse le famiglie dei prigionieri a considerarli dei traditori, decretando la loro condanna definitiva. Un figlio prigioniero a Theresienstadt scrisse al padre: “ Non mi degno più di chiamarvi caro padre avendo ricevuto la vostra lettera… dove lessi… che ho disonorato voi e tutta la famiglia. Perciò d’ora in poi sarò il vostro grande nemico, e non più il vostro Domenico”. E ancora, da un padre al figlio prigioniero a Mauthausen: “Tu mi chiedi il mangiare, ma a un vigliacco come te non mando nulla; se non ti fucilano quelle canaglie di austriaci, ti fucileranno in Italia… Non scrivere più che ci fai un piacere. A morte le canaglie”. Le vittime italiane nei campi di concentramento austriaci furono circa 100.000, un sesto delle perdite subite in tutto il periodo di guerra. Tutto documentato nel libro di Giovanna Procacci ”Soldati e prigionieri italiani nella Grande Guerra”, edito da Editori Riuniti nel 1983 e ripubblicato recentemente da Bollati Boringhieri.
L’equazione “interventista” uguale a “patriottico” e per contro “non interventista” uguale “antipatriottico”, prese piede a tal punto che la “guerra esterna” intrapresa contro gli imperi centrali il 24 maggio 1915, e ufficialmente finita il 3 novembre 1918, continuò virulenta nel “fronte interno”, per la liquidazione dei partiti e delle associazioni non interventiste, colpendo i loro rappresentanti, le loro sedi, i loro mezzi di informazione, ad opera dei gruppi di potere che si erano formati nel corso della guerra: politici e intellettuali interventisti, militari, industriali, agrari.
La riscossa del Piave, nel 1918, fu accompagnata da tante ed importanti promesse fatte dal re e dai governanti ai combattenti: la vittoria avrebbe portato alla spartizione delle terre, una maggiore giustizia sociale, garanzie di lavoro e di sviluppo. Finita la guerra il difficile ritorno ad un’economia di pace convinse i lavoratori e i loro sindacati a rivendicare salari adeguati, rappresentatività contrattuale e maggiore peso nelle decisioni industriali. L’esempio venuto dalla rivoluzione russa animò l’attività sindacale che si scontrò con la chiusura degli industriali e degli agrari a forme partecipate di gestione.